Chirurgia protesica imageChirurgia protesica imageChirurgia protesica image
In questa sezione ci troviamo a discutere di artrosi del ginocchio (altresì detta gonartrosi).
Si stima che in Italia vi siano 4 milioni di persone artrosiche. Sempre l’artrosi è la principale causa di invalidità oltre sessant’anni. L’epidemiologia ci dice che dopo 55 anni più dell’80% dei pazienti manifesta segni radiologici di artrosi: ciò vuol dire che oltre otto persone su 10, se dovessero eseguire una radiografia di un’articolazione, leggeranno nel referto” segni di artrosi”.
Ad onor del vero bisogna però aggiungere che solo tra il 10 ed il 20% dei soggetti affetti accusa sintomi correlati all’artrosi.
Essa rappresenta la degenerazione (usura) dell’articolazione che entro certi limiti va considerata fisiologica. Quando questa usura offre limitazioni funzionali, cioè impedisce lo svolgimento delle normali attività, entriamo nell’ambito patologico e quindi dobbiamo pensare ad un trattamento congruo al fine di restituire una buona qualità di vita.

I trattamenti vanno da conservativi (cioè non chirurgici - stile di vita, trattamenti fisici, farmaci ed integratori, infiltrazioni) a chirurgici, a seconda della gravità.

Nei casi di estrema gravità e compromissione delle normali attività, qualora vi sia il fallimento dei trattamenti conservativi, si può ricorrere alla chirurgia. Poiché siamo di fronte ad importanti usure necessariamente sarà una chirurgia sostitutiva, cioè protesica.

La protesi rappresenta una sostituzione della superficie articolare usurata. Di fatto le moderne protesi possono essere considerate dei rivestimenti della superficie articolare.

Vi sono diversi tipi di gonartrosi pertanto vi sono diverse soluzioni protesiche: monocompartimentali (mediale, laterale, femororotulea), totali (bicompartimentali, tricompartimentali) con conservazione del legamento crociato posteriore, con conservazione del legamento crociato anteriore, posterostabilizzate, e da revisione.




La scelta del tipo di protesi viene fatta dal chirurgo in sede di visita avvalendosi della valutazione clinica e degli esami radiologici. Nella scelta si contempla la minor invasività possibile, le migliori performance postoperatorie, il recupero più veloce e le caratteristiche di longevità dell’impianto protesico, per poter offrire al paziente la soluzione migliore per le sue caratteristiche.

Quali esami?
Nella quasi totalità dei casi le radiografie sotto carico (cioè eseguite mentre il paziente è in piedi ) sono le uniche indagini necessarie.
Esse dimostrano il grado e la localizzazione dell’usura e lo stato legamentoso, consentendo quindi la scelta dell’impianto idoneo.



Per applicare una protesi all’interno di un ginocchio il chirurgo deve poter avere degli strumenti che lo guidino al fine di posizionare l’impianto in maniera corretta sia per quel che riguarda l’orientamento spaziale che per le tensioni legamentose.




Nella chirurgia cosiddetta tradizionale si usano degli strumenti che indirizzano il posizionamento della protesi sfruttando la morfologia dell’arto e l’anatomia del ginocchio. Il termine “tradizionale” non deve tuttavia trarre in inganno. Gli strumentari, così come le evoluzioni dei disegni protesici, non sono per nulla “statici”. Il loro miglioramento è continuo e sono stati raggiunti standard elevati di duttilità, maneggevolezza e precisione.



La chirurgia robotica si sviluppa negli ultimi anni come strumento a disposizione del chirurgo per il posizionamento delle componenti protesiche. Nata negli Stati Uniti, in Europa arriva nel 2011, quando presso il Policlinico di Abano Terme si è effettuato il primo intervento di protesi monocompartimentale del ginocchio.

Essa si avvale di uno studio radiologico TAC che permette al computer di acquisire un modello reale dell’anatomia del ginocchio.




Su questo modello si applica virtualmente la protesi, posizionandola in maniera radiologicamente corretta. Una volta deciso il posizionamento si passa alla parte operativa. Si valutano le tensioni legamentose, si apportano i necessari miglioramenti sulla pianificazione virtuale e, una volta ottenuto il corretto posizionamento anatomico e cinematico, il robot consente di effettuare il posizionamento della protesi sul ginocchio del paziente così come preventivamente pianificato. Tale tecnologia, in particolari situazioni si è rivelata preziosa per migliorare i risultati in termini di soddisfazione del paziente e di possibile longevità dell’impianto.



Quanto dura un impianto protesico?
Esistono dei registri dove vengono annotate le protesi impiantate e le protesi espiantate. Rappresentano una sorta di anagrafe, così da poter capire quanto un impianto protesico dura. Si può affermare che le protesi totali attualmente impiantate superano i 10 anni nel 95% dei casi e i 15 anni nel 90% dei casi.
Se prendiamo in considerazione le protesi monocompartimentali, vi sono alcuni studi che evidenziano sopravvivenze addirittura maggiori (91% a 20 anni - A.J. Price, Ulf Svard. A second decede lifetable survival analysis of the Oxford unicompartimental Knee Arthroplasty. Clin Orthop Relat Res (2011) 469:174-179).

La mobilizzazione, cioè il fatto che la protesi ad un certo punto della sua vita non rimane più attaccata all’osso, rappresenta la fine dell’impianto protesico. Cosa fare? L’impianto, se possibile, andrà sostituito con protesi apposite.

Nelle radiografie qui sotto si nota come in quella di dx vi è lo spostamento dello stelo femorale rispetto quella di sx: ciò sta ad indicare la mobilizzazione dell’impianto a livello della componete femorale.
A seguire il risultato radiologico della revisione.





Durata ricovero
Nel corso degli ultimi anni si è assistito ad una progressiva diminuzione della degenza. Questo è stato reso possibile dall’introduzione di protocolli di trattamento del paziente chirurgico che non si limitano a migliorare solo l’intervento ma tutto il periodo pre e post-operatorio, mediante la collaborazione sinergica di più figure professionali (il fisiatra, il fisioterapista, l’anestesista, il chirurgo ed il personale infermieristico). L’inquadramento preoperatorio vede parte attiva il fisiatra ed il fisioterapista che educano il paziente su quello che sarà il primo postoperatorio, cosicché possa essere consapevole di cosa accadrà ed essere quindi più collaborante nel progetto riabilitativo. L’anestesista ed il chirurgo attuano protocolli farmacologici perioperatori ed intraoperatori volti a limitare le perdite ematiche ed il dolore postoperatorio, affinché l’intervento risulti il meno traumatizzante possibile. nel postoperatorio il personale segue il paziente già dalle prime ore al fine di guadagnare il prima possibile una condizione di minima autosufficienza in sicurezza.
Identificate col termine anglosassone “fast-track”, queste procedure rappresentano un modello di cura basato su evidenza scientifica, sviluppato per ridurre le complicanze perioperatorie (come le infezioni ospedaliere e le trasfusioni di sangue) e per ottimizzare il miglior recupero dopo l’intervento chirurgico.
Ovviamente la durata della degenza non è prestabilita. Viene decisa in base all’autonomia del paziente, allo stato della ferita e allo stato di salute generale.